La speranza è un oggetto di studio da sempre, dal momento in cui l’uomo ha cominciato a pensare a sé stesso come essere pensante, come comunità umana. Che essa sia un fenomeno positivo, una caratteristica dell’individuo, uno stato di coscienza, un potere interiore, una energia, una forza dinamica della vita, uno stato motivazionale, che sia o meno possibile annoverarla tra le emozioni, per tutti coloro che ci hanno riflettuto un fatto risulta evidente: la speranza è una componente fondamentale di una motivazione di successo nei processi di cambiamento.
Andiamo però per gradi.
La speranza che ora interessa gli psicologi, ha ben prima interessato infatti filosofi e teologi. Nei miti greci la speranza era confusa ai mali che Zeus aveva chiuso nel vaso che consegnò a Pandora purché non lo aprisse, ma rimase al servizio degli uomini dopo che il vaso fu aperto e le sue malevole disgrazie liberate nel mondo.
La speranza dunque già nel mito era una risorsa contro le avversità.
Aristotele ne parla come di un atto di volontà capace di orientare le energie della persona al raggiungimento dei propri obiettivi, ma anche come l’abitudine alla fiducia nelle proprie qualità che è la premessa al raggiungimento degli obiettivi stessi, in quanto abitua l’uomo a porsi degli obiettivi e delle strade per raggiungerli che siano coerenti ed adeguate alle sue capacità.
In questa concretezza dell’atteggiamento di chi spera tutta la filosofia si trovò impegnata a discutere con ipotesi assai diverse e fino ai nostri tempi. Ernst Bloch vi dedicò un imponente riflessione nel “Principio di Speranza” (opera in tre volumi pubblicata tra il 1953 ed il 1959) molto legata all’idea marxista dell’esistenzialismo ma al tempo stesso capace di far ritrovare l’eternità nell’attimo presente, cioè capace di dare ad ogni istante il sapore di ciò che è eterno.
La Speranza dunque non fu mai pensata come un semplicistico ottimismo, o una stolida, quanto passiva, attesa che tutto vada al meglio. Se fosse così infatti non avrebbe potuto interessare tutta la storia della filosofia né sarebbe altrimenti per la teologia una delle tre virtù teologali, cioè una di quelle attitudini dell’animo che determinano il significato della nostra vita nel rapporto con Dio.
La Speranza è dunque sul piano teologico la capacità di orientare la propria vita in relazione al tema della salvezza che si compie nella misericordia di Dio; così come la Fede è la capacità di orientare la propria vita nella dimensione dell’abbandono della creatura al suo Creatore; così come la Carità è la capacità di orientare la propria vita nella dimensione della comunione, dell’agape nell’incontro con l’altro, in particolare con l’altro che soffre.
Non è qui il caso di addentrarsi sul piano teologico della visione escatologica della salvezza nella prospettiva cristiana, ma vale la pena di assumere il contenuto di valore antropologico di questa virtù. La speranza, infatti, ontologicamente determinata dalla prospettiva di Salvezza, si lega al tema molto più generale del modo in cui ci si salva dal male, ci si emancipa dall’errore, ci si riscatta dal fallimento, che attraversa ogni uomo, ogni storia personale e collettiva, ogni epoca storica e ogni generazione dell’umanità. La riflessione che possiamo fare sul tema della salvezza e di ciò che umanamente diventa rilevante nel riscatto, non può riguardare mai una singola persona.
Essa stessa, come persona cioè, nasce dentro alla relazione; la relazione con il totalmente altro che è visibile, come dice Levinas, nel volto dell’altro. Ecco perché la questione della salvezza non riguarda solo la dimensione personale
La salvezza è per ciascuno e per l’umanità insieme. E’ una prospettiva che non può mai riguardare solo l’individuo perché implica necessariamente il coinvolgimento del bene raggiunto con altri, che di quel bene possono essere latori o compartecipi.
Una mirabile sintesi di queste strutture concettuali che riguardano la speranza declinata in modo mitologico contemporaneo è nella struttura del racconto fiabesco.
Ogni fiaba è la storia di un riscatto. Infatti una delle necessità della struttura fiabesca del racconto è proprio la sua conclusione, la quale sempre implica quella vittoria finale che realizza la speranza che in tutta la fiaba avevamo coltivato sostenendo i nostri eroi in mezzo agli ostacoli, ai mostri e alle battaglie che avevamo affrontato. Ogni fiaba parte da un sogno ed attraversa una contesa, una avversità, una prova ed infine una risoluzione vittoriosa.
Però, se ci pensate, non c’è una fiaba che finisca con le parole: visse in solitudine felice e contento, bensì tutte le fiabe finiscono declinando il riscatto al plurale: vissero insieme felici e contenti ….ci sarà un perché?
Per questo dico che la Speranza è il desiderio di un bene condiviso.